Mio fratello denunciò il sistema tolemaico del giornalismo locale

L’intervento alla presentazione dell’inchiesta drammaturgica “Il caso Spampinato”. Chi te lo fa fare?”, gli dissero alcuni giornalisti di Ragusa. Gli consigliarono di lasciar perdere, di non rivolgere domande sgradite alle persone importanti. (…) Vigeva e vige ancora in molti giornali questa regola e la convinzione che le notizie siano una merce come un’altra, e perciò un giornale sceglie quelle da approfondire e pubblicare in base alla convenienza propria e dei propri amici e sostenitori. E’ un sistema di pensiero arcaico quanto il sistema tolemaico secondo cui tutti i corpi celesti girerebbero intorno alla Terra…. Mio fratello si scontrò con quel sistema…

astrocarta

di Alberto Spampinato – Bologna, 20 marzo 2012 Scorrere il rosario delle vittime dell’ingiustizia è sempre triste, doloroso, crea imbarazzo, fa nascere sensi di colpa, fa venire voglia di strappare dai libri le pagine più strazianti, fa nascere il desiderio di rimuovere i ricordi dolorosi, a cominciare da quelli che ci toccano da vicino. E invece bisogna ricordare e fare conoscere agli altri storie come questa di mio fratello Giovanni. Bisogna ricordare gli affetti che ci sono stati rubati, le persone che si sono giocate la vita per noi, lottando per un ideale, per affermare i principi a cui teniamo. E’ doveroso. E’ istruttivo. E’ utile. Non dobbiamo.cedere alla tentazione di rimuovere e dimenticare. Dobbiamo ricordare questi morti uno ad uno, fare sapere cosa hanno fatto.

Dobbiamo impegnarci a tenere viva la loro memoria. E dobbiamo farlo senza retorica, in modo oggettivo, con un rigoroso lavoro di documentazione. Dobbiamo farlo per noi stessi e per le generazioni che verranno. Le storie dei giornalisti uccisi in Italia mentre facevano con onestà e rigore professionale il loro lavoro fanno piangere il cuore, ma dobbiamo conoscerle, perché contengono profonde verità, insegnamenti per il presente e per il futuro. Sono storie, che hanno la stessa funzione educativa delle favole degli orchi e dei draghi che raccontiamo ai nostri bambini: mettono paura, ma aiutano a capire la vita e a crescere. Chiunque crede che l’informazione giornalistica sia una infrastruttura essenziale della democrazia deve conoscere queste storie e afferrare il senso di tragedia collettiva che esprimono.

Ficcanaso e provocatore

Giovanni Spampinato era un giovane giornalista della migliore scuola e mentre faceva il suo lavoro di cronista fu accusato di essere un ficcanaso e un provocatore. Faceva domande sacrosante che davano fastidio: non piacevano a gente potente abituata a stabilire d’imperio cosa i giornalisti possono scrivere e cosa invece, per loro convenienza, dovrebbero fingere di non sapere. Giovanni fu ucciso perché non accettò questa pretesa. Faceva domande sacrosante applicando i canoni del giornalismo che fanno prevalere sempre l’interesse generale, l’interesse dei cittadini a conoscere la verità.Giovanni aveva 25 anni.

Da tre anni scriveva per L’Ora. Alcune inchieste clamorose avevano rivelato il suo talento. Quando fu accusato di essere un ficcanaso non capì come altri giornalisti potessero permetterlo e, sfogandosi con me, disse: “Qui la stampa è un’associazione di omertà controllata”. Parlava di un malinteso senso del giornalismo che fa accettare le prepotenze. Parlava dell’autocensura, che è la negazione del giornalismo. All’accusa di essere un ficcanaso, obbiettava: come si fa a cercare informazioni senza fare le domande giuste alle persone giuste? Lui consultava le fonti, analizzava i fatti e per chiarire i punti poco chiari faceva domande, e le formulava pubblicamente. Non conosceva altro modo di fare la cronaca. Non concepiva la compiacenza e neppure la sottomissione del giornalista verso i potenti e i notabili. Pensava che un onesto giornalista, in quanto rappresentante collettivo della pubblica opinione, abbia l’investitura per trattare alla pari i potenti. Aveva una concezione sociale del giornalismo e faceva il suo lavoro con impegno ideale. Perciò continuò a comportarsi come riteneva fosse giusto: come gli avevano insegnato alla grande scuola del giornale L’Ora. Perciò, di fronte a un efferato omicidio non esitò a porre domande sul comportamento di notabili e potenti della sua città.

“Chi te lo fa fare?”

“Chi te lo fa fare?”, gli dissero alcuni giornalisti di Ragusa. Gli consigliarono di lasciar perdere, di non rivolgere domande sgradite alle persone importanti. Loro si regolavano così: censuravano le notizie sgradite a notabili, potenti e amici del loro giornale e non avevano mai problemi! Si vantavano di agire così. Per prudenza, per quieto vivere, per non avere grane e, allo stesso tempo, per compiacere i direttori dei loro giornali e le persone a cui facevano queste riverenze. In effetti agire così evitava fastidi e faceva guadagnare titoli di amicizia e benemerenza presso i redattori e i caporedattori dei loro giornali, che sceglievano le notizie da pubblicare con un criterio di prudenza e di convenienza. Il giornale L’Ora non si regolava così, ma questa era la prassi negli altri giornali siciliani, e tuttora in gran parte lo è. Vigeva e vige ancora in molti giornali questa regola e la convinzione che le notizie siano una merce come un’altra, e perciò un giornale sceglie quelle da approfondire e pubblicare in base alla convenienza propria e dei propri amici e sostenitori. E’ un sistema di pensiero arcaico quanto il sistema tolemaico secondo cui tutti I corpi celesti girerebbero intorno alla Terra.

L’eresia

Giovanni era uno dei contestatori di quel sistema tolemaico, del teorema secondo cui le notizie gravitano intorno agli interessi commerciali, politici e relazionali dell’editore. Giovanni pensava che le notizie devono gravitare intorno all’interesse dei cittadini. Insomma, Giovanni, in questo senso, era un copernicano quanto lo erano i suoi colleghi della redazione dell’Ora e i giornalisti più illuminati della sua epoca che facevano tesoro della dimostrazione della rotondità del globo fatta da Galileo Galilei con il suo cannocchiale. Ma a Ragusa, in quanto galileano Giovanni fu sospettato di eresia, come lo fu all’inizio del Seicento l’astronomo Giambattista Odierna che professava le idee di Galileo e si salvò dall’accusa di eresia lasciando Ragusa.Giovanni invece restò a Ragusa a combattere la sua impari battaglia. Non lasciò perdere. Continuò a fare domande e a scrivere articoli in cui elencava le domande più inquietanti riguardo a un misterioso omicidio. Perciò gli altri giornalisti lo trattarono come un eretico, e le persone infastidite dalle sue domande si sentirono autorizzate a trattarlo come un ficcanaso, e i più forti lo accusarono di essere un provocatore.

La sfida di Giovanni durò sei mesi. Si concluse il 27 ottobre 1972, quando il suo assassino lo attirò in un tranello e lo uccise a bruciapelo con due pistole che si era procurato appositamente. Poi si costituì dicendo: mi ha provocato, mi ha distrutto moralmente e io l’ho distrutto fisicamente. Al processo, la tesi della provocazione fu il cavallo di battaglia dei difensori dell’assassino, che non si fecero scrupolo di denigrare la vittima, di dire che non era un giornalista, ma un ficcanaso, uno che non si faceva i fatti suoi.La tesi era assurda, ma fu accettata, perché l’assassino era figlio di un giudice e a giudicarlo c’erano dei giudici che avevano dei figli e forse per questo furono molto comprensivi. Riservarono all’assassino un trattamento paterno e, alla fine, gli concessero tutte le attenuanti possibili e immaginabili, compresa quella della provocazione. E in cosa consisteva la provocazione?

Negli articoli di cronaca che Giovanni Spampinato aveva pubblicato, nelle sue documentate inchieste, nell’attività giornalistica che lo aveva portato a porre tante domande. Insomma, la provocazione consisteva nel suo mestiere di giornalista galileano.Anche fra i magistrati c’era qualcuno che non credeva all’assioma del Sole che gira intorno alla Terra. C’era, ad esempio, il procuratore generale di Catania, Tommaso Auletta, che al processo d’appello, pronunciando la requisitoria, chiese invano: “Se un giornalista non fa quel che ha fatto Giovanni Spampinato, ditemi, perché esistono i giornali?”. La domanda fu considerata una provocazione e non ottenne alcuna risposta. La giuria non ne tenne conto: la sentenza ridusse infatti la pena dell’assassino sentenziando che era stato provocato. Dunque per avere cercato la verità su un omicidio con le domande che in questi casi fanno i bravi giornalisti, Giovanni fu ucciso e per trent’anni è passata la tesi che non fosse stato un giornalista, ma un ficcanaso e un provocatore.

Trentacinque anni dopo

Poi, nel 2007, quando della vicenda di Ragusa si era perso quasi il ricordo, da uno dei più autorevoli fori del giornalismo italiano arrivò la risposta a quella provocatoria domanda del giudice Tommaso Auletta: nel 2007, alla memoria di Giovanni Spampinato fu assegnato il Premio Saint-Vincent di Giornalismo, il premio di giornalismo più prestigioso d’Italia. Dunque fu riconosciuto, e nel modo più solenne, che era un giornalista. Da quel momento ha avuto inizio una riabilitazione della sua memoria, almeno in alcune parti d’Italia e del mondo, mentre in altre parti del globo il Sole continua a girare intorno alla Terra, Giovanni resta un ficcanaso e in quei luoghi le autorità costituite non osano pronunciare in pubblico il nome di Giovanni Spampinato in quanto eretico e provocatore.

All’inizio non capivo perché la città natale di Giovanni non ha per lui la stessa considerazione che altre città natali riservano ai loro giornalisti uccisi a causa del loro lavoro, a giornalisti che si sono distinti per le stesse doti di coraggio e di imprudenza professionale. E’ vero, anche la memoria di altri giornalisti uccisi è oscurata e indegnamente dimenticata come quella di mio fratello, e non è giusto. Ma è anche vero che per tenere desta la memoria di numerosi altri giornalisti uccisi vengono promossi convegni e manifestazioni pubbliche alle quali intervengono gli amministratori ed i più alti funzionari pubblici. Perché alcune comunità che hanno subito così gravi ferite non sentono il dovere di ricordarle le loro vittime?

All’inizio pensavo che fosse solo una distrazione non ricordare pubblicamente Giovanni, ma adesso so che non é così. Adesso so che a Ragusa, dopo 40 anni, la morte di Giovanni è ancora una ferita aperta. Giovanni rimane un eretico, un personaggio da dimenticare. Le istituzioni pubbliche hanno fatto perfino dei passi indietro rispetto all’impegno di ricordarlo. E’ così. E’ triste. Ma io non dispero: il tempo farà giustizia.

Anche Galileo Galilei è stato a lungo bistrattato. Ma alla fine è stato riabilitato dalla stessa Chiesa che lo aveva condannato, anche se ci sono voluti 350 anni. Ho fiducia che anche il sistema tolemaico dell’informazione prima o poi sarà disconosciuto dappertutto: spero solo che non ci vogliano 350 anni!Nella valutazione di queste cose la magistratura ha fatto più passi avanti di certe amministrazioni cittadine. Credo che ai nostri giorni nessun Tribunale italiano oserebbe qualificare come atti provocatori gli articoli di cronaca di un giornalista. Quei tempi sembrano tramontati per sempre. Qualcosa di profondo è cambiato da allora, ma altre cose purtroppo stentano ancora a cambiare ed è necessario incoraggiare e sollecitare l’adeguamento agli standard più avanzati della nostra civiltà. Questi sono alcuni dei miei dubbi e delle mie speranze. Ne ho altri. Chi vuole conoscerli tutti può leggere il mio libro-confessione: C’erano bei cani ma molto seri- Storia di mio fratello Giovanni ucciso perché scriveva troppo, Ponte alle Grazie, 2009.

Alberto Spampinato

AUDIO. Marsala. “Io e mio fratello Giovanni”

radio_itacaIl 27 ottobre 2011, Radio Itaca di Marsala, ha dedicato la prima puntata del programma “Itaca ricorda” a una ricostruzione della storia di Giovanni Spampinato, nel 39° anniversario della sua uccisione. Michaela Di Caprio e Vincenzo Figlioli hanno letto brani del libro di Alberto Spampinato “C’erano bei cani ma molto seri”, Sperling e Kupfer 2009, e hanno intervistato l’autore. “Itaca ricorda” è uno spazio di memoria e impegno civile nato da un’idea di Michaela Di Caprio per assolvere il dovere di ricordare e far conoscere protagonisti, vittime, eventi della nostra storia civile, eventi e personaggi che non dobbiamo dimenticare mai se vogliamo tenere desta la coscienza sociale.

Ascolta la puntata

Delitto Tumino. Nessun elemento per riaprire le indagini

Verso archiviazione pista romanzesca indicata da lettera anonima 

(…) Parliamo dl un incubo che la coscienza ragusana si trascina da decenni: il caso Tumino-Spampinato. Ci sono i presupposti per riaprire l’inchiesta?

La riapertura delle indagini è codificata dal Codice di procedura penale che richiede nuovi elemnti. Ora, sul delitto Spampinato si e avuta una condanna ed è un caso chiuso. Sì, si potrebbe andare alla ricerca di altri scenari, ma è necessario che emerga una pista, che in questi due anni pero non si è avuta. Se precedentemente qualche pista c’è stata ed è stata valutata negativamente cosi doveva evidentemente essere. Quanto al delitto Tumino l’unica cosa nuova che mi è pervenuta è una ricostruzione degna di una fiction, che probabilmente è pure veritiera ma è assolutamente impraticabile. Qualcuno l‘ha veicolata attraverso una figura istituzionale. Si tratta un testo anonimo, scritto su carta leggera con una Lettera 22, che affida ogni prova alla memoria di persone morte. e quindi non verificabili. Continua a leggere

La verità negata del delitto Spampinato

Giovanni, giovane cronista dell’Ora e dell’Unità, fu ucciso in Sicilia il 28 ottobre 1972. Indagava su un altro omicidio. Un caso da riaprire: Mafia e trame nere, nuovi documenti e una procura che non vuole vedere. Accade a Ragusa, oggi come 33 anni fa.

Quando Roberto Campria sporco di sangue e con la pistola ancora in pugno andò a costituirsi, denunciando se stesso per l’omicidio di Giovanni Spampinato, la notte tra il 27 e il 28 ottobre 1972 a Ragusa, in questura dovettero ricordarsi di quella denuncia a suo carico per porto abusivo di armi. Era rimasta nascosta negli uffici di Ps. Qualcuno corse a portarne una copia in procura appena fece giorno. Roberto era il figlio del presidente del tribunale di Ragusa Saverio Campria. Possedeva senza permesso un fucile e due pistole, altre due era andato a comprarle pochi giorni prima a Caltagirone. Erano la Erma calibro 7,65 e la Smith & Wesson calibro 38 con cui sparò a Spampinato che aveva 26 anni ed era un giornalista, corrispondente dell’Ora di Palermo e dell’Unità. Continua a leggere

Erano in molti a temere i servizi di Spampinato

Ragusa, 4 nov 1972 – Ad una settimana esatta dalla barbara esecuzione del compagno Spampinato, l’inchiesta ha compiuto un giro di boa che può rivelarsi decisivo per l’accertamento dei retroscena che l’assassino Roberto Campria, tenta disperatamente di nascondere con quel suo grottesco tentativo di far passare il delitto per un gesto assolutamente immotivato, del tutto gratuito, forse addirittura compiuto in stato di ipnosi.

Una volta fatta giustizia di questo grossolano espediente mistificatorio (ed il Sostituto procuratore generale di atania, Auletta, proprio questo ha fatto, contestando al Campria dopo l’interrogatorio, l’aggravante decisiva della premeditazione oltre a quella della minorata difesa della vittima impossibilitata a difendersi dai colpi di ben due pistole) è giocoforza andare infatti alla ricerca di un movente. E non di uno qualunque, ma di un movente che risponda al duplice requisito della logica e della consistenza. Continua a leggere

C’è una “trama nera” dietro il delitto di Ragusa

Inquietanti retroscena, misteriose confessioni e tanti elementi fanno pensare ad abili e cinici registi. Il giovane omicida strumento dell'”organizzazione”?

Il meccanismo di autodistruzione insito nella strategia del figlio 32enne del presidente del tribunale di Ragusa che ha ucciso il corrispondente de l’ORA e de l’Unità, Giovanni Spampinato, come esso era trapelato dopo l’interrogatorio di mercoledì, è già scattato per la prima volta ieri. Il sostituto procuratore generale della Corte d’Appello di Catania, il cui ufficio sta conducendo, come è noto, l’istruttoria, ha ritoccato infatti l’originario, e per certe omissioni sconcertante, ordine di cattura spiccato contro Campria e vi ha aggiunto due significative aggravanti. Che sono: la premeditazione e le “condizioni di minore difesa pubblica e privata” (omicidio avvebuto di notte, con la vittima nella impossibilità assoluta di difendersi). Continua a leggere

Campria costretto a coprire qualcuno?

L’uccisione di Giovanni Spampinato. Questa ipotesi viene confermata dall’interrogatorio pieno di bugie e di reticenze. La difesa vuol giocare la carta della seminfermità mentale dell’assassino. Ieri perquisizioni

Un passaporto per la seminfermità mentale: questa è sembrata ieri la strategia difensiva che Roberto Campria ha delineato (o diligentemente ripetuto?), durante le tre ore di interrogatorio al quale è stato sottoposto nel carcere di Modica dal sostituto procuratore generale Auletta. Un interrogatorio contrappuntato da bugie, amnesia e lacrime.

Prima bugia: afferma di non aver mai né visto né conosciuto l’ex marò della Decima Mas Vittorio Quintavalle, la cui inquietante e finora indecifrata presenza nel ragusano si riflette non poco sul delitto Tumino.

C’è tuttavia gente, a Ragusa, che riferisce di avere visto insieme Campria, Tumino e Quintavalle. Sembra perfino che durante uno degli incontri di Giovanni Spampinato con Campria i due abbiano incontrato Quintavalle che Campria avrebbe chiamato fermandocisi a chiacchierare. Allora: perché Campria dice di non conoscere il fascista Quintavalle, quando sa benissimo che un sacco di gente a Ragusa li ha visti insieme?

Seconda Bugia: Campria dice di non avere avuto mai interessi né contatti politici, specialmente verso destra. Ma non era uno dei pochi amici dell’ingegner Angelo Tumino, la cui milizia politica nel MSI era arcinota a tutti e quindi anche al Campria?

Negando i suoi contatti con gli ambienti della destra ragusana (Tumino, si ricordi, era in rapporti non precari con l’onorevole missino Cilia, a sua volta ben collegato al principe Borghese e ai tempi di “Ordine Nuovo” anche con l’ultrà Pino Rauti); Roberto Campria tenta perfino di giocare la carta di un suo sinistrismo “in divenire” e rileva che gli unici discorsi politici egli li faceva proprio con Giovanni Spampinato.

Tutto ciò, sarebbe venuto fuori dall’interrogatorio di ieri, anche se le indiscrezioni trapelano con molta difficoltà e non sono sempre controllabili. Le amnesie sono molto più numerose: in pratica, Roberto Campria non ricorda quasi nulla. Della forsennata sparatoria con la quale ha ucciso Giovanni Spampinato riesce a dire soltanto: “Non so perché l’ho fatto. Io volevo bene a Giovanni, lo stimavo. La macchina si fermò, io scesi e mi misi a sparare”.

E’ già tanto che ieri abbia detto almeno questo: perché la sera di venerdì, al sostituto procuratore Fera che gli chiedeva di dirgli il perché, Campria non seppe o volle dire altro che: “Non ricordo più nulla”. Si era creduto fino ad oggi che quella sera avesse detto più o meno: l’ho ucciso perché lui aveva ucciso moralmente me, o qualcosa di simile. Macché, neanche questo disse: troppo tempestivo per essere uno smemorato.

Ora, una posizione di questo tipo sarebbe contraddittoriae decisamente controproducente per qualsiasi altro imputato di omicidio: in casi come questo, la provocazione è il meno che l’assassino dovrebbe essere indotto a prospettare con attendibili margini di verosimiglianza o quanto meno di speranza. Campria non tenta neppure: punta tutto, fin dai primi minuti, sulla carta della seminfermità mentale.

Le uniche domande alle quali abbia risposto con grande esattezza di dettagli sono state proprio quelle relative alle sue condizioni di salute mentale. Sembra infatti che abbia ricordato perfettamente una visita neurologica alla quale anni fa fu sottoposto a Roma; ed un’altra cui lo sottopose il professore Pisana, direttore dell’ambulatorio provinciale di Igiene Mentale dove lo stesso lavorava, quando e come decideva di farlo. Di questa ultima visita – avvenuta pochi mesi fa – ha specificato che non ne seguì la terapia consigliatagli.

Neurolabile e per giunta ribelle alle cure prescritte dal medico: come non credere allora che le due pistole gli siano saltate in mano dal borsetto e così con autonoma determinazione si siano messe a rovesciare proiettili?

Omicidio senza movente dunque omicidio di un folle: l’equazione difensiva è estremamente chiara, ma ci sembra altrettanto incredibile.

Soprattutto, conferma nell’ipotesi già fatta che Roberto Campria sia, abilmente manovrato, costretto a coprire qualcuno. Ciò riconduce immediatamente al delitto Tumino, sul quale ieri il sostituto Procuratore Generale Auletta sembra abbia a lungo ma inutilmente insistito durante l’interrogatorio, e alla trama nella quale quel delittò si maturò. Quella trama è nera, in uno sconcertante intreccio di interessi che vanno dal commercio clandestino di materiale archeologico alla vendita di quadri rubati, dal contrabbando al traffico di armi e esplosivi: tutto un vastissimo campo di indagini che nessuno finora ha mai affrontato con un minimo di decisione.

Anche in questo senso ieri avrebbe tentato di scavare il dott. Auletta, ma sembra inutilmente. Roberto Campria ha una memoria di ferro, quando si tratta di non ricordar nulla.

Ogni risposta negativa prepara a una contraddizione: tutto l’interrogatorio poggia appunto su tali difficili rapporti. In ogni caso, il dottor Auletta ha dichiarato che quelle tre ore trascorse nel carcere di Modica gli bastano, e che per quanto lo riguarda l’interrogatorio è finito.

Ieri pomeriggio sono state effettuate alcune perquisizioni, altre ce ne sono state nel corso della notte. In casa Campria sembra siano stati sequestrati alcuni appunti relativi al caso Tumino: ma è difficile che possano avere troppa importanza, considerato che sono stati trovati ben cinque giorni dopo, in una casa che nessuno aveva pensato di sigillare dopo un primo rapidissimo sopralluogo avvenuto la notte stessa dell’omicidio di Spampinato.

Secondo certe voci raccolt in via Giovanni Meli dove appunto è la casa, il giorno prima il Presidente del Tribunale (titolare della funzione anche se attualmente “ammalato” e in “esilio” a Caltagirone) sarebbe stato visto uscire dal portone: del resto nessuno avrebbe potuto impedigli di tornare a casa sua.

Un’altra perquisizione è stata effettuatain casa di due vecchie zie dell’avvocato Cavalieri – padre dell’ex fidanzata di Roberto Campria – dove sarebbe stata trovata la pistola-catenaccio che, restituita da Campria dopo la rottura del fidanzamento all’avv. Cavalieri, fu da questi consegnata alla Procura. Su questa pistola, come è noto, è attualmente in corso una perizia balistica a Siracusa.

Infine una terza perquisizione è stata compiuta la socrsa notte in via Fiume, dove Roberto Campria stava arredandosi un appartamento dove andare a vivere da solo

Mario Genco

Giustizia e potere: Bilancia truccata

Il convegno dibattito di Siracusa

Qual è il ruolo della magistratura alla luce degli sviluppi giudiziari delle più gravi vicende politiche –  Il nesso fra potere politico e amministrazione della giustizia  – La repressione come strumento di governo

SIRACUSA, 19 SET 1972 – La giustizia può essere apolitica? Può il magistrato applicare le leggi ignorando ciò che avviene intorno a lui? L’incompatibilità fra politica e giustizia fu uno dei luoghi comuni più cari ai fautori del regime fascista.Ma in realtà non sfugge a nessuno che il magistrato che dichiara di non voler fare politica fa per ciò stesso una precisa scelta: applicando certe leggi (o scegleindo fra leleggi) opera una scelta conservatrice al servizio del potere dominante. E’ recente il caso di un pretore che non ha giudicato reato la ricostituzione del partito nazista perché la legge Scelba del 1952 non prevede il caso specifico del partito nazista!
   Sul ruolo della magistratura interrogativi e perprlessità sono sorti preoccupanti e frequenti negli ultimi anni. Le vicende collegate alla strage di Milano e al processo Valpreda, per citare l’esempio più clamorosoe politicamente più importante per tutte le implicazioni che esso ha comportato e comporta, hanno dato un duro colpo alla fiducia dei cittadini nella giustizia. La tragica fine di Feltrinelli, e le strane indagini sulle “brigate rosse”, che hanno portato ad arresti discutibili anche sul piano della procedura, dimostrano che fra giustizia e potere esiste un nesso preciso, e che in magistrati in ogni caso, anche nell’applicazione delle leggi contro i “reati comuni”, fanno una scelta politica; e il più delle volte essa è conservatrice.

   Più spesso questa scelta diventa costante applicazione di norme del codice penale fascista che sono in stridente contrasto con la Costituzione. Da qui per esempio la repressioen dei cosiddetti “reati d’opinione”.

   Il 2 dicembre di quattro anni fa avvenivano i tragici fatti di Avola. Per i due braccianti uccisi non c’è stata giustizia: il caso è stato archiviato. Sindacalisti e braccianti che avevano partecipato allo sciopero vengono denunciati per una incredibile serie di reati. Fra i denunciati vi sono pure tutti i lavoratori feriti dalle raffiche di mitra sparate dalla polizia.
  Da allora a Siracusa è un crescendo di iniziative repressive. Nel 1971 viene ordinato lo sgombero coattivodelle case occupate dai lavoratori disoccupati; contro di loro fioccano le aggravanti più strane.

  Il 1° maggio di quest’anno viene impedita una manifestazione organizzata dalla federazione anarchica. Si comincia a chidere con sempre maggiore frequenza la emissione di ordini di cattura per reati politici. Cominciano le incriminazioni per i reati di vilipendio.

   “Non è questa una maniera politica di interpretare le norme?”, si è chiesto l’avv. Umberto Di Giovanni, che ha illustrato le vicende giudiziarie degli ultimi anni nel Siracusano nella sua introduzione al convegno-dibattito “Giustizia e potere: dove va la magistratura” che si è svolto nei giorni scorsi a Siracusa.

   L’argomento ha suscitato vivo interesse, per la sua attualità e per la notorietà di alcuni dei relatori, fra i quali erano dirigenti “Magistratura Democratica”, e avvocati noti per aver partecipato a importanti processi politici, e l’avvocato genovese G. B. Lazagna, in libertà provvisoria dopo essere stato per 5 mesi in carcere perché ritenuto coinvolto nelle attività delle fantomatiche “brigate rosse”.

         “INDIPENDENZA” E VERITA’

   L’avv. Salvo Riela, deputato nazionale comunista, membro della Commisisone Giustizia della Camera, ha detto che con sempre maggiore frequenze si sente parlare di repressione, cioé di iniziative tese a conculcare la libertà dei cittadini prese dalla polizia e dalla magistratura per interesse della classe politica dominante.

   Tutto questo trae origine dall’esistenza di una legislazione non solo inadeguata, ma che difende dei valori che non sono più attuali nel nostro paese e nella nostra società, ma che riesce comoda alla classe dominante. Le lotte contadine e operaie sono costantemente contrassegnate da iniziative della polizia e della magistratura, per cui ad un certo numero di azioni sinadacali corrisponde immancabilmente un certo numero di azioni repressive. Il momento cruciale che abbiamo raggiunto negli ultimi anni – ha proseguito l’avv. Riela – possiamo localizzarlo intorno alle lotte studentesche e sindacali del 1968 e degli anni succesivi, che avevano obiettivi molto più avanzati di quelli del passato. Questo ha portato non solo a far crescere il clima repressivo esistente nel paese, ma ha fatto anche scoppiare all’interno stesso della classe dominante delle contraddizioni e dei ripensamenti. Anche all’interno della magistratura italiana si sono fatte strada tesi democratiche, ciò che non è stato indolore perché proprio dalla preoccupazione per questo nuovo corso preso da molti giovani magistrati ha preso vigore un’ondata reazionaria all’interno della magistratura stessa.

  L’avv. Riela ha proseguito parlando dele vicende connesse al processo Valpreda. “Subito dopo la strage di Milano le forze democratiche capirono che non era la pista anarchica quella che avrebbe portato alla scoperta dei responsabili delle bombe, ma che essi andavano cercati fra i fascisti. Ma la scelta operata da precisi settori della magistratura italiana ha allontanato per lungo tempo dalla ricerca della verità, e si è insistito in tesi insostenibili. Oggi la stessa cosa sta avvenendo con le vicende connesse alla morte di Feltrinelli, con i casi di Castagnino, di Lazagna, di Vittorio Togliatti, utilizzati come tappe di una marcia di avvicinamento alle forze della sinistra italiana”.

   Ha quindi preso la parola l’avv. Edoardo Di Giovanni del Comitato di lotta contro la strage di Stato, difensore di Lazagna e degli anarchici al processo Valpreda. “La strage del 12 dicembre è stato il punto più alto di una strategia della tensione e de che confermano come quelle indaqginil terrorismo, strategia che anche oggi si sviluppa non solo con un uso più scoperto dei fascisti da parte della classe padronale, ma anche di quelle istituzioni dello Stato che erano e sono complici. Oggi sappiamo sulle vicende connesse a quegli attentati e alle indagini che li seguirono episodi confermano come quelle indagini si siano svolte coscientemente su un solo binario.

   “E’ in corso un’inchiesta a carico del giudice Stitz, cioè del magistrato che ha portato alla scoperta della ‘pista nera’ che prima si era voluta ignorare. Una ragazza, contrariamente a quanto prevede lo stesso codice, è stata tenuta in stato di fermo per tre mesi per una sua presunta relazione con vicende delle ‘brigate rosse'”.

   “Il processo Valpreda ha dimostrato al di là di ogni dubbio l’uso politico reazionario che si fa della giustizia. E’ bastato poco per demolire le accuse contro gli anarchici costruite senza tener conto della verità”.

   L’avvocato Giambattista Lazagna ha detto che non si può parlare di divisione fra giustizia e potere: “Si tratta solo di una divisione delle parti. UNo degli arrestati detenuto assieme a me si è visto puntare la pistola da un magistrato che era venuto con i poliziotti ad arrestarlo. Allora che differenza c’è, perché dire che la magistraturaè una cosa a sè, indipendente dal potere?

   “Non si tratta più di rivendicare un orientamento democratico della magistratura, dell’esercito, della polizia. Si tratta invece di capire come esiste una precisa origine di classe di tali fenomeni, come ad una presenza internazionale dell’imperialismo vorrisponde un tipo di pot4re come il nostro.

   “Non possiamo dimenticare che funzione essenziale dello stato borghese è la repressione. La repressione – e questo è un concetto ancora difficile da spiegare – non è solo politica, ma è in tutti i campi. La mia esperienza carceraria mi ha fatto capire che non si può fare una distinzione fra repressione politica e repressione comune. Il carcere, di per sè stesso, è punto finale di qualsiasi tipo di repressione, non corrisponde più nemmono alla coscienza civile di qualsiasi cittadino. La stessa ideologia che porta all’uso del carcere, all’isolamento dalla vita civile di persone che magari hanno commesso piccoli reati, è un’ideologia che va combattuta”.

   IL dottor Luigi Saraceni, segretario della sezione romana di Magistratura Democratica, che ha svolto la sua relazione dopo alcuni interventi del numeroso pubblico presente, ha iniziato polemizzando con alcune affermazioni che erano state fatte da appartenenti al gruppo extra parlamentare Lotta Continua.

   “E’ una visione massimalista e fin troppo schematica dello scontro di classe, quella secondo cui è del tutto inutile operare all’interno del potere giudiziario per rendere democratica la magistratura in quanto questo potere è è destinato a svolgere sempre e soltanto un ruolo di repressione. Certamente, il potere giudiziario, essendo uno dei poteri fondamentali dello stato borghese, è destinato a svolgere un ruolo di affermazione e di puntellamento dell’interesse dle padrone che organizza lo stato borghese. Tuttavia, se ci limitiamo a osservare soltanto questo, diventa del tutto inutile qualunque tipo di battaglia, e anche questo convegno, e anche tutto quello che Lotta Continua va deenunciando sulle sue pagine: perché non vedo a quale conclusione può portareuna continua denuncia dello stato borghese se non si crede che la lotta può essere portata con successo anche su questo piano”.

   “Il problema è di vedere che cosa è oggi il potere per poter proporre delle allternative allo stato borghese. Il potere non è più annidato nel Palazzo d’Inverno, espugnando il quale avremmo risolto il problema. Il potere è anche un intrecciarsi di contraddizioni, anche e soprattutto per quello che la classe subalterna riescea imporre”.

   “La Costituzione, con la quale non si è fatta certo la rivoluzione, perché la rivoluzione non si fa con la carta, in quanto essa celebra ancora la sacrità del diritto di proprietà, contiene tuttavia delle affermazioni che sono una conquista della resistenza e della lotta di classe.

   “Non si capisce perché non dovremmo servirci di questi germi di potere alternativo che lo stato borghese contiene, rimandando tutto a dopo la rivoluzione. Bisogna avere una visione articolata, dialettica dello scontro di classe”.

   “Magistratura democratica ha fatto una precisa scelta di campo, che è una scelta di classe, a fianco degli sfruttati, delle classi subalterne, e svolge il suo ruolo con il movimento che è nel paese”.

   “Non si può ignorare del tutto ciò che avviene all’interno del potere, perché altrimenti il nemico di classe, che conosce la tecnica giuridica, avrà partita vinta. Questo si è visto anche in processi molto grossi, come quello contro Valpreda e nelle vicende dell’affare Lazagna”.

   “Nell’uno e nell’altro caso si sono costruite le accuse, adoperando tutti i ferri dela tecnica. Il destino del processo Valpreda (l’istruttoria è crollata miseramente al sesto giorno del dibattito), si è giocato su un fatto squisitamente tecnico, come quello della competenza territoriale. Ma la tecnica non è un fatto indifferente, essa è al servisio di una politica, e come tale vanno denunziati e combattuti anche nelle aule giudiziarie i tentativi di adoperarla a fini reazionari”.

  “Nel caso Lazagna i magistrati hanno fatto ricorso a uno strano ‘errore’ nel trascrivere il numerod ell’articolo del codice in base al quale veniva incriminato: un errore che però permetteva l’emissione del mandato di cattura”.
          LOTTA POLITICA E MAGISTRATURA

   “E’ quindi importante combattere la lotta politica anche sul piano di istituzioni come la magistratura, rifiutando il ruolo di settore ‘indipendente’ che le si vorrebbe dare, per conservarla strumento di potere”.

   Ha concluso il dibattito la relazione del magistrato Marco Ramat, segretario nazionale di Magistratura Democratica. “La nostra funzione non è solo quella di svolgere un ruolo diverso all’interno della magistratura, dando un diverso svolgimento ai processi che che ci sono affidati. Certo, se processi politici vengono affidati a magistrati democratici, potete essere certi che essi hanno uno svolgimento diverso da quelli chesi stanno svolgendo oggi”.

   “Ma noi di Magistratura Democratica siamo convinti che un processo rivoluzionario non ha possibilità di successo se non riesce ad affondare radici profonde nela società, e ad avere un consenso di massa. Per questo è importanteche si operi all’interno delle istituzioni, della scuola, come della magistratura, dell’esercito, della polizia, per proporre valori alternativi rispetto a quelli esistenti nella nostra società, in modo che domani, quando l’assetto strutturale sarà cambiato, non venga tradito dalla resipiscenza di una ideologia, e di una cultura non sopraffatte  tempestivamente da una maturazione che deve avvenire, infiltrandosi tenacemente in tutti i tessuti sociali, in tutte le strutture sociali, in tutti gli organi istituzionali, in ogni sede insomma, laddove si puo’ preparare in un modo o nell’altro il capovolgimento dele istituzioni”.

   “Bisogna operare perché presso il popolo si formi una coscienza alternativa, anche per quanto riguarda la valutazione del diritto. per questo riteniamo importante non ignorare questo campo di scontro costituito dalle strutture giudiziarie”.

 Giovanni Spampinato